VOGLIO UN SOGNO

Per Willy

Voglio un sogno.

Uno grande, che non stia nemmeno in un cassetto.

E’ che forse i sogni non si regalano, né si comprano. Non si scelgono. Non si può svegliarsi un mattino e decidere di avere un sogno. Non si può chiedere alla propria amica del cuore “vieni con me, oggi voglio scegliere un sogno che mi stia bene”. Non si cerca su internet.

I sogni nascono da soli, silenziosi, senza che tu te ne accorga.  Raccolgono le tue emozioni, le tue esperienze, le tue ambizioni e le tue paure. E prendono forma piano piano.

Un sogno è qualcosa che tu vuoi realizzare, che ti rende felice, ti fa stare bene, ti apre gli occhi dalla meraviglia. A volte ci si arriva facilmente, altre volte richiede impegno, fatica, costanza e pazienza.

A volte, invece, il tuo sogno si realizza e tu neanche te ne accorgi.  Non te ne accorgi perché non ci avevi mai pensato, che il tuo sogno era quello. Che la realtà davanti ai tuoi occhi era quella che avevi sempre desiderato.  Una persona che ti ama, una casa da costruire, due bambini meravigliosi. Una passeggiata nel bosco, una serata in pizzeria con qualcuno che ti tiene la mano, una notte passata abbracciata alla persona che ami.

Con queste cose dentro al mio sogno, posso arrivare dove voglio.

Posso realizzare la mia vita, senza aver paura di fallire.

Con il mio sogno insieme a me, posso essere felice.

SONO felice.

Sono felice perché ti amo e perché mi ami.

E la nostra vita è tutta nostra.

I bambini imparano ciò che vedono

Se il bambino viene trattato con tolleranza, impara ad essere paziente.

Se vive nell’incoraggiamento, impara la fiducia.

Se vive nell’approvazione, impara ad apprezzare.

Se vive nella lealtà, impara la giustizia.

Se vive con sicurezza, impara ad avere fede.

Se vive volendosi bene, impara a trovare Amore e Amicizia.

Dorothy Nolte

Le situazioni difficili

Crescita personale e consapevolezza di sé  

“Un Natale, Gesù Bambino mi regalò la gru sbagliata. Ma tanto io lo so che nessuno ha la gru che vorrebbe. Perché nessuno è in grado di leggerti dentro. E allora tanto vale mettersi a coltivare piante.”

Paola Mastrocola, Una barca nel bosco

 

Le situazioni difficili, in cui tutti noi ci siamo trovati  o ci troveremo nel corso della nostra vita, possono essere esperienze dolorose, ma che se vissute con consapevolezza possono portare ad un ulteriore passo nel nostro cammino di crescita personale.

“Crescita” è una parola dai molteplici significati. Crescita fisica, mentale, personale.

Proprio in questo periodo mi sono trovata a interrogarmi su cosa questa parola volesse dire. Su quando una persona può considerarsi cresciuta e matura.

Crescita di per sè è un cambiamento, una trasformazione. E come tutti i cambiamenti ci porta a passare attraverso periodi di disequilibrio, di passaggio tra una condizione stabile ad un’altra.

Ogni occasione di crescita può portare, quindi, a delle modifiche nel nostro fisico ma anche nel nostro modo di pensare,  di agire, di affrontare la vita.

Durante queste occasioni può capitare di sentirsi un po’ persi, di non capire cosa sta succedendo, di sentirsi “una barca nel bosco”.

Credo che mantenere costante ed anzi incrementare sempre la consapevolezza di sé sia ciò che bisogna ricercare sempre per poter intraprendere la strada giusta, per sapere individuare almeno in parte ciò che vogliamo diventare da grandi e che può renderci soddisfatti di noi stessi.

Per fare questo è importante parlarsi con franchezza e non limitarsi mai a raccontarsi i fatti “così come dovrebbero essere” in funzione delle convenzioni sociali o solo semplicemente di quello che noi vorremmo che fosse. E per parlarsi con franchezza bisogna saper riconoscere e identificare le emozioni che ci scuotono e che ci riempiono, scatenate da un evento particolare piuttosto che da una relazione o da un pensiero.

Riconoscere le nostre emozioni è fatto tanto fondamentale quanto difficile, perché spesso non ci rendiamo conto che il nostro modo di pensare e di agire è condizionato oltre che dalla società in cui viviamo e dalle sue convenzioni anche da quelli che Alba Marcoli (psicologa clinica di formazione analitica, con lunga esperienza nel campo dell’insegnamento e della psicoterapia)  ne “Il bambino lasciato solo” (Ed. Mondadori, 2007 ) chiama i nostri “fantasmi del passato”, ovvero meccanismi di comportamento che diventano automatismi innati proprio nelle situazioni di maggior stress o di difficoltà. I fantasmi del passato sono schemi comportamentali ereditati dai nostri genitori o dalle persone con cui siamo stati più a contatto durante l’infanzia e l’adolescenza e che hanno influenzato la nostra educazione e , appunto, la nostra crescita.

Quello che dobbiamo saper riconoscere è che noi non siamo i nostri schemi di comportamento. Noi siamo persone diverse dai nostri genitori, e una volta riconosciuti questi schemi possiamo modificarli secondo il nostro pensiero, ad esempio per correggere comportamenti che ci paiono ora sbagliati o non appropriati e che vogliamo modificare e migliorare.

L’adulto e i bambini

La crescita è parte quotidiana e fondamentale della vita dei bambini.

Spesso ci si trova a dover affrontare, con loro, momenti e situazioni difficili e ci rendiamo conto di quanto sia difficile trovare le parole e le modalità giuste per aiutarli in quello di cui hanno bisogno per crescere serenamente.

Spesso, in queste situazioni, risuona dentro di noi la nostra parte “bambina” e ci troviamo a riproporre ai nostri figli i “fantasmi” del nostro passato”, pur rendendoci conto che le modalità di comportamento che ne derivano sono in realtà controproducenti, o addirittura ci si ritorcono contro.

Alba Marcoli propone una serie di favole che raccontano alcune di queste situazioni difficili, e in cui ognuno di noi può riconoscere le modalità d’aiuto che inconsapevolmente mettiamo in atto, e altre invece che potrebbero risultare più efficaci.

La cosa che stupisce è che davvero, la maggior parte delle volte, la soluzione è nella via più semplice da percorrere. La cosa più difficile è invece avere la pazienza e la calma di vedere questa via da percorrere con chiarezza e saperla percorrere con costanza e coerenza per tutto il tempo necessario, senza scoraggiarsi o spaventarsi se non si hanno risultati immediati.

Il percorso verte principalmente sull’aumento della consapevolezza di sé, nel nostro modo di educare i bambini ed aiutarli ad affrontare i piccoli e grandi ostacoli che la vita ci  propone. Dobbiamo essere infatti coscienti del fatto che i bambini sono un libro bianco che viene scritto di girono in giorno, da loro stessi, prendendo insegnamenti dalle esperienze che vivono personalmente, ma anche da noi e da come interagiamo con loro con il nostro esempio e con il nostro modo di star loro vicino.

Le prime riflessioni che possiamo fare, quindi, in situazioni difficili, sono sicuramente su noi stessi.

Le favole aiutano innanzitutto a riconoscere, guardandoli dall’esterno, i nostri fantasmi del passato. Una volta isolati questi schemi comportamentali, bisogna cercare di prenderne le distanze e imparare a guardare le cose  e a ragionare con la mente dei bambini. Spesso basta guardare le cose da un altro punto di vista perché tutto sia più semplice ed evidente.

Senza lasciarsi scoraggiare e puntando l’attenzione su noi stessi, impariamo che noi non siamo il nostro modo di ragionare o i nostri schemi mentali, ma siamo in realtà un insieme molto più ricco di idee ed esperienze e soprattutto emozioni.  Impariamo ad essere più indulgenti verso noi stessi lungo il nostro percorso di crescita e miglioramento.

Bisogna poi saper riconoscere l’individualità di ogni bambino. Bisogna saper lasciare i bambini esprimersi ed essere loro stessi, crescendo e sbagliando da soli, senza iperproteggerli o cercando di plasmarli secondo un nostro ideale. Le battaglie perse in partenza sono sicuramente quelle in cui vogliamo i nostri figli diversi da come lo sono. Sono battaglie che non andrebbero combattute per niente, perché ogni individuo, per giovane o anziano che sia, ha la sua strada da percorrere a modo suo che non può combaciare con nessun altra e che deve trovare e percorrere lui solo. Quello che possiamo fare è dare aiuto e soccorso e sostegno durante il percorso.

Ricordiamoci che ognuno di noi è unico e irripetibile. Ripetiamo il nostro nome: se io ho un nome significa che ci sono anche io a questo mondo e che c’è un posto anche per me e per il mio modo di essere, come per tutto e tutti.

“Dei genitori saggi permettono ai loro bambini di sbagliare. E’ un bene che si brucino le dita ogni tanto” Ghandi

Nell’aiutare un bambino bisogna poi ricordarsi sempre che IO sono l’adulto, non il mio bambino. Questo significa che sarò io a dover fornire risposte e rassicurazioni, e anche quando non ne sono capace, non devo essere dipendente da un “fuori” che mi dia la conferma di quanto posso valere.

Anche qui ritorna il lavoro e la riflessione su noi stessi. La presa di coscienza di sé, dei nostri limiti e delle nostre paure, non perché vengano nascoste, ma perché vengano accettate.

Fornire sicurezze ai bambini è una delle basi necessarie perché un giorno possano diventare a loro volta sicuri di sé e riuscire a intraprendere il loro percorso di vita.

Le sicurezze per i bambini si creano costruendo una tana sicura, dei rituali, una routine, non sottoponendoli a continui cambiamenti. Solo così in futuro avranno anche loro un porto sicuro da cui partire per affrontare  i cambiamenti della vita.

Importante è poi cercare di comunicare con i bambini usando la loro lingua. I bambini hanno bisogno di sentirsi riflessi negli altri in un modo che corrisponde alle loro esperienze, sia esterne che interne. Quando riusciamo a comunicare con i nostri bambini secondo modalità che creano un senso di unione e sintonia, li aiutiamo a creare una storia coerente e integrata della loro vita.

Bisogna saperli innanzitutto ascoltare, il che non significa accontentare.

Bisogna saper trasmettere una visione positiva del mondo e del futuro, nonostante le nostre paure e incertezze.

E’ comprensibile come in ogni storia difficile esistono dei buchi incolmabili che riguardano “ciò che sarebbe potuto essere e che non è stato”. Non dobbiamo lasciare che il rancore o la tristezza o la rabbia che questi buchi possono aver creato, condizionino la nostra visione del futuro: bisogna saper guardare avanti e superare ciò che è stato il passato. Quello che saremo in futuro lo decidiamo noi stessi, nel presente, facendo forza anche sul ciò che abbiamo vissuto nel passato, per quanto negativo sia stato, e sapendolo utilizzare a nostro favore, non come zavorra che in qualche modo ci impedisca di essere felici o di raggiungere un obiettivo.

Nei periodi di difficoltà, lasciamo che ad aiutarci siano soprattutto i ricordi buoni dentro di noi, il nostro serbatoio affettivo.

 

Bibliografia: “Il bambino lasciato solo. Favole per momenti difficili”, Alba Marcoli, Ed.Mondadori

Il modello REBT: ABC delle mie Emozioni (4-7 anni) . Programma di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT ( Mario Di Pietro)

Intrapreso il percorso sul riconoscimento e sulla gestione delle emozioni, risulta di grande aiuto il libro “ABC delle mie Emozioni 4-7 anni” ( esistono dei volumi per diverse età con suggerimenti specifici), di Mario Di Pietro.

Provo a ripercorrere ora in breve i punti salienti del libro: l’autore propone un percorso di “alfabetizzazione socio-affettiva” che si propone di conoscere e sviluppare le “abilità emozionali” dei bambini ( ma vedremo come si incomincia dagli adulti!).

La base del percorso di alfabetizzazione socio-affettiva è proprio l’insegnare ai bambini come essere consapevole delle proprie emozioni, e in un secondo tempo anche riconoscere le emozioni provate da altre persone.

Le nostre “abilità emozionali”, infatti, o “competenze emotive”, sono le nostre capacità di fronteggiare le frustrazioni, la collera, le paure, lo sconforto, e proprio da queste derivano le risorse per reagire alle avversità e instaurare relazioni positive con le altre persone.

La prima cosa è quindi insegnare al bambino a riconoscere e chiamare per nome le proprie emozioni, chiamandole per nome e ampliando il lessico a sua disposizione: si possono usare disegni di facce con diverse espressioni, fotografie, e poi anche la verbalizzazione del suo stato d’animo ( es: “oggi vedo che sei contento!”, oppure: “ti vedo triste, cosa ti preoccupa?”).

Oltre alle proprie emozioni il bambino deve imparare a riconoscere quelle provate da altre persone: l’adulto può insegnare a fare attenzioni a certe espressioni, posture del corpo, o anche suggerire come ci si può sentire in determinate situazioni attraverso la lettura di favole in cui il bambino cerca di esprimere lo stato d’animo dei personaggi in diverse situazioni.

Una volta imparato a chiamare per nome le emozioni, si possono insegnare alcune semplici tecniche per gestire alcune di esse:

  • La rabbia con la tecnica della “tartaruga” (riconosco i segnali di rabbia che mi dà il mio corpo-fermarsi- rintanarsi nel guscio e pensare a cose che possono calmarmi-uscire dal guscio e pensare come poter risolvere il problema)
  • La tristezza: una volta riconosciuta ( attenzione ai pensieri negativi e pessimisti che possono manifestarla) è importante non soffocarla, ma al contrario fare in modo che il bambino la esprima, nel modo che trova più facile ( se non parlare, il disegno, la musica, il ballo, il gioco) . Comunicare il messaggio che non c’è niente di male a sentirsi tristi, che è una condizione temporanea. Provare a portare sollievo anche con metodi fisici: sport e attività fisica sono antidepressivi naturali!
  • La timidezza: finchè questa caratteristica non limita i rapporti con i coetanei o la possibilità di fare esperienze sociali non c’è nulla di male nell’essere timidi. I bambini più timidi andrebbero incoraggiati a fare esperienze ponendogli piccoli obiettivi e premiandoli , senza aggravarli con troppe aspettative o troppa ansia.
  • Ansia e paure: cercare di razionalizzare la causalità degli eventi che generano paura o ansia a seconda del livello di comprensione del bambino, lasciargli porre domande e rassicurarlo creando routine da seguire.

 

La Terapia Razionale Emotiva Comportamentale ( REBT, rational-emotive behaviour therapy)

E’ una teoria e prassi psicoterapeutica ideata dallo psicologo statunitense Albert Ellis.

Il suo assunto di base è il credere nella possibilità di raggiungere un maggior benessere emotivo utilizzando proprio la capacità di pensiero razionale.

Secondo il modello REBT, le reazioni emotive che in ognuno di noi si scatenano di fronte ad un certo evento sono generate e indotte dal modo in cui l’individuo rappresenta e classifica tali eventi nella propria mente, nel modo in cui questo evento viene “valutato” dalla propria mente.

Per portare un esempio, ad un evento del tipo “mio figlio ha rovesciato il budino sul tappeto”, i pensieri valutativi dell’evento possono essere diversi, e immaginate le reazioni emotive scatenate da due pensieri del tipo: A- “che disastro, il budino è andato sprecato e ora dovrò ripulire tutto” oppure B- “ è un bel guaio e mi darà da fare, ma arrabbiarmi non mi aiuterà. Dopotutto è un bambino e può succedere”.  La nostra mente produce continuamente pensieri per valutare e reagire a diverse situazioni, esiste ed è sempre in atto un continuo “dialogo interiore”.

Da questo esempio si può forse già intuire come alcuni tipi di pensieri possano indurci a reazioni emotive esagerate in rapporto alla situazione vissuta. Questi pensieri vengono definiti irrazionali e hanno le seguenti caratteristiche:

  • Non realistici, distorcono gli eventi
  • Pensieri esagerati, assolutistici
  • Non aiutano a raggiungere lo scopo
  • Portano a reazioni emotive esagerate

Questi pensieri portano con sé alcuni contenuti dannosi e problematici:

  • Pensiero assolutistico: è considerato la base di ogni forma di irrazionalità. Questo pensiero trasforma il nostro obiettivo da preferenza razionale, realizzazione auspicabile , e desiderabile a cui però possiamo anche fare a meno, seppur con qualche inconveniente, in esigenza assoluta e indispensabile. Assume la forma di “doverizzazioni”, verso se stessi e verso gli altri: “devo assolutamente”, “bisogna sempre”. Spesso questi pensieri sono legati alla ricerca di stima e approvazione degli altri, cose che vengono ritenute condizioni indispensabili alla nostra felicità.  Sono sicuramente condizioni che aiutano, ma è facile intuire che possono essere invece la base della costruzione dell’infelicità se ritenute assolutamente e sempre indispensabili.
  • Pensiero catastrofico: consiste nell’esagerazione dell’aspetto spiacevole di una situazione. “E’ tremendo avere così poco tempo”, “E’ orribile un bambino così poco educato”
  • Intolleranza, Insopportabilità: pensieri che non tollerano frustrazioni “è insopportabile tutto questo lavoro…”
  • Svalutazione globale di sé o degli altri: consiste nel ritenere un fallimento totale ogni proprio sbaglio. “sono un disastro”, “i miei bambini sono dei selvaggi”
  • Generalizzare: pensare in termini di “sempre”, “mai”, “tutti”, “nessuno”.

La trasformazione dei pensieri

La parte razionale della nostra mente può aiutarci nel trasformare questi pensieri, riconoscendoli e sostituendoli con altri più positivi e costruttivi. In pratica bisogna cercare di sostituire un vecchio percorso mentale con uno nuovo che porta emozioni più positive e funzionali.

Ovviamente non è una trasformazione che può avvenire da un giorno all’altro, ma la si può raggiungere attraverso molta pratica, costanza e con qualche aiuto come la scrittura di un “diario” emotivo” nel quale annotare le sequenze A-B-C di evento-pensiero-emozione, riconoscere il pensiero irrazionale, attaccarlo con una serie di domande e sostituirlo con un pensiero più positivo.

Alcuni esempi di attacchi ai pensieri irrazionali e trasformazioni posso essere:

  • Cosa c’è di vero/non vero in quello che penso?
  • C’è qualche esagerazione nel mio modo di pensare?
  • Pensare che ho bisogno assoluto di questa cosa, o che questa cosa è insopportabile, mi aiuta a stare meglio?
  • Questi pensieri mi sono utili a superare la situazione?
  • Qual è la cosa peggiore che potrebbe succedere, e quanto è probabile che si verifichi davvero?
  • In quale altro modo potrei considerare questa situazione?

Pensieri trasformati:

  • Le pretese assolute in: “mi piacerebbe ma so che non è indispensabile…so che potrò avere altre gratificazioni se…”
  • Il pensiero catastrofico: “E’ doloroso ma non è la fine del mondo”
  • Intolleranza: “ E’ fastidioso ma sopportabile..”
  • La svalutazione personale sostituita con dei giudizi sulle azioni e non sulle persone in sè, ricordandosi che una persona è molto più che non la somma dei suoi comportamenti

Il dialogo interiore

Il primo passo per riuscire a realizzare questa trasformazione è ascoltare il proprio dialogo interiore. In particolare, focalizzare la propria attenzione su come parliamo a noi stessi quando

  • Facciamo un errore
  • Si viene trattati male
  • Arriviamo in ritardo
  • Scoprite un difetto in un prodotto acquistato
  • Ascoltate lamentele su vostro figlio
  • Ricevete una critica
  • Vi accorgete di essere ingrassati
  • Non riuscite a capire il funzionamento di un nuovo apparecchio acquistato

Riconoscere come la nostra mente elabora avvenimenti di questo tipo ci porterà a riconoscere i nostri pensieri irrazionali, e quindi iniziare la strada della loro sostituzione con pensieri più positivi.

Farlo su noi stessi ci renderà poi capaci di riconoscere anche in altri gli stessi meccanismi ed aiutarli a superarli.

Ascoltare i pensieri dei bambini

Una volta capito il nostro dialogo interiore e iniziata la trasformazione in noi stessi, possiamo aiutare anche un’altra persona, in particolare un bambino, a noi caro.

Nei bambini, per riconoscere i loro pensieri irrazionali prevalenti, può essere utile osservare e annotare le loro reazioni più frequenti, come “è insopportabile, devo per forza, non sono capace a fare niente..” e cercare di riconoscere e capire le sue modalità di pensiero.

Si può poi spiegargli il concetto di dialogo interiore, facendo riferimento a situazioni simili vissute dall’adulto e come egli aveva reagito, oppure facendo riferimento a ciò che si è osservato nel bambino (“ti ho visto mentre giocavi a scacchi, e dicevi che ce la potevi fare, questo è un buon modo di pensare”).

Importantissimo è essere consapevoli che il primo insegnamento che noi diamo al bambino è attraverso il nostro stesso esempio: il modo in cui noi gestiamo certe situazioni diventa per lui modello da seguire; è fondamentale, quindi, nel caso si voglia dimostrargli pensieri costruttivi,  sottolineare nelle diverse situazioni l’affermazione positiva che ci porta verso l’ottenimento del nostro obiettivo (“E’ meglio se mi controllo”, “E’ difficile ma posso farcela”, “Vediamo quali altre cose posso fare”).

In situazioni attinenti la disciplina, è importante porre l’accento sulle azioni compiute e non dare un giudizio sulla persona intera ( “se ti comporti male nessuno giocherà più con te”, piuttosto che “come hai potuto fare una cosa simile?”): questo porterà il bambino a costruire un dialogo interiore basato sulla valutazione delle proprie azioni e non sulla svalutazione di se stesso.

In situazioni attinenti a eventi futuri, sviluppare e esplicitare atteggiamenti volti ad aumentare la fiducia in se stessi e non gravate da ansie di perfezionismo : piuttosto che “tu non sarai mai bravo come Giovanna”, oppure “ il mio bambino è timido, non fa certe cose”, si può dire che “è impossibile riuscire bene in tutto ma si può provare a fare del nostro meglio” “ se sbaglio è utile per imparare”.

In generale, quindi, è importante concentrarsi sui messaggi positivi che ci lancia la nostra mente e farli presente sempre, come modello, ai nostri bambini. Questi messaggi e affermazioni dovrebbero poi essere espresse con il linguaggio del bambino e non con quello dell’adulto; dovrebbero essere in accordo con gli scopi del bambino, e non con le aspettative dell’adulto; devono essere il più possibile espresse in termini positivi, evitando le negazioni(“ E’ meglio che sto calmo” piuttosto che “non devo arrabbiarmi” ).

E’ importante anche essere consapevoli che per insegnare ad un bambino a trasformare i propri pensieri irrazionali in pensieri positivi ci va calma, costanza, dedizione e pazienza: per renderlo capace di affrontare da solo situazioni problematiche con un pensiero positivo è sicuramente utile e importante utilizzare questo tipo di pensieri più volte nell’arco della giornata, fissarli su un cartoncino e associarli a situazioni piacevoli ( il fare merenda, un gioco interessante, una sorpresa gradita) e magari richiamarli alla mente prima di addormentarsi, quando la mente risulta rilassata e ricettiva.

Con un lavoro costante di sicuro i risultati si otterranno in tempi relativamente brevi.

 

La mia esperienza

Ho provato personalmente a seguire questo metodo con mia figlia di 7 anni, che da sempre è insicura e paurosa nei confronti di nuove esperienze ( siano queste l’imparare ad andare in bici o fare un esercizio di matematica nuovo), bisognosa di trovare sempre il buon giudizio e il sostegno degli adulti e dei suoi coetanei .

Credo che già a questa età si possa iniziare a spiegare la teoria di questo metodo: a mia figlia ho spiegato che nella nostra testolina c’è sempre un pensiero, c’è sempre una vocina che ci dice ad esempio “che brutta matematica! io non la so fare! “ non appena vediamo il quaderno di matematica. Questa vocina, quando ci dice cose brutte o paurose, ci fa stare male, ci fa diventare paurosi e non ci fa riuscire a fare niente. Noi però possiamo sentirla, questa vocina, e dirle di stare zitta! Che in realtà non è così: che non succede niente se non riesco a fare subito un esercizio di matematica, l’importante è non scoraggiarsi e se necessario chiedere aiuto alla mamma o al papà o alla maestra. Che tante volte anche io ho paura di non riuscire a fare una cosa, ma allora mi fermo e mi dico “ io ce la metto tutta, sono sicura che ce la farò!”

Prima di iniziare a fare i compiti che per lei so essere ostici, le ho insegnato a ripetersi “ce la posso fare, io sono capace, io ci riesco!” e l’ultima volta, dopo una breve crisi di pianto perché non voleva iniziare matematica, l’ho sentita ripetersi queste parole e farsi coraggio da sola, per riuscire a iniziare e finire i compiti senza paura.

I bambini sono davvero molto veloci nell’apprender dei metodi che per loro siano confacenti e che capiscono portarli nella direzione giusta, cioè farli stare meglio.

La cosa più importante è riuscire ad essere costanti nell’eseguire questi esercizi e cercare di far notare i piccoli miglioramenti che vengono notati, sottolineando le buone emozioni che ne derivano. Il bambino le saprà riconoscere di sicuro! E si sentirà soddisfatto e un pochino più sicuro di sé.

E soprattutto fornire un modello adeguato e coerente con il proprio comportamento, cosa non sempre facile.

Il percorso è lungo, di certo non basta una sola volta per far sì che questo metodo venga recepito e sia efficacie.

Pensare positivamente è il primo passo fondamentale per affrontare la vita con un sorriso e non sentirsi scoraggiare da una emozione triste o situazione difficile, avere la forza e il coraggio di inseguire i propri sogni e di riuscire in ciò che si desidera fare.
Bibliografia: L’ABC DELLE MIE EMOZIONI, Programma di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT, Mario Di Pietro, Ed. Erickson

IL CAVALLO

Il 6 gennaio 2016 è iniziata la mia grande avventura a cavallo.

Ho iniziato ben consapevole di NON volere iniziare a praticare uno sport…,ma di cominciare a vivere un’esperienza.

L’equitazione unisce due aspetti che per me sono di grande valore : il rapporto con un animale, e quindi anche solo indirettamente con la natura, e la conoscenza di se stessi.

Il rapporto con il cavallo inizia da subito, dalla prima volta:  montando in sella ti devi fidare di un animale di 500 kg o più, e lui, lasciandosi montare, si fida di te.

Il cavallo è un animale stupendo, di enorme bellezza, eleganza, potenza. E’ un erbivoro, quindi per natura una preda, quindi timoroso nonostante la mole, e sempre attento a ciò che gli succede intorno. Grazie alla grandezza e alla disposizione laterale dei suoi occhi, il cavallo ha una visione a 340° con solo due punti ciechi: il primo è un triangolo di terreno che arriva fino a due metri dal muso, mentre il secondo comprende la parte immediatamente posteriore del cavallo.

Anche l’olfatto e l’udito sono sensi molto sviluppati.

Il suo essere intelligente e forte e di indole predisposta all’adattamento ha permesso all’uomo di impiegarlo in svariate attività, come tutti sappiamo.

Ma una volta che si entra davvero in contatto con lui, si può riconoscere la sua natura selvaggia, e l’atto di sottomissione che rappresenta per lui l’esecuzione di comandi del padrone-uomo.

Imparare a cavalcare è soprattutto questo: instaurare un rapporto, una forma di comunicazione con un animale agile e possente che è stato addestrato ad eseguire i  comandi del cavaliere. E questo mi stupisce sempre.

Il solo fatto di salire in sella ad un animale così bello è per me un’emozione.

In sella le emozioni passano dal cavaliere al cavallo, si sentono i muscoli dell’animale vibrare e contrarsi, si sente la fatica che gli costa eseguire l’esercizio richiesto…si vedono i suoi pensieri che gli fanno muovere le orecchie e lo fanno stare attento a cosa succede intorno a lui..

Mi stupisce ogni volta il senso di controllo di un animale talmente potente e allo stesso tempo rispetto la sua obbedienza e ammiro la sua natura.

Imparare a cavalcare è sicuramente un’esperienza di crescita personale sotto molteplici aspetti.

Si impara ad essere sicuri e precisi nei comandi, ma anche umili nell’accettare il confronto con un altro essere. Si impara a credere in quello che vuoi fare e a non mollare al primo tentativo andato male, magari quella volta non per colpa tua.

Si impara la concentrazione.

Si impara a migliorarsi conoscendosi, riconoscendo pensieri o comportamenti negativi che non hanno portato al risultato voluto, apprezzando le capacità di espressione del nostro corpo e sicuramente anche di quello del cavallo.

Si può imparare a vedere le cose da un punto di vista diverso: un’ombra , seppur strana, per noi è solo un’ombra…per il cavallo a volte può essere qualcosa di sconosciuto e spaventoso!

Ci si diverte, ovviamente, provando brividi e emozioni forti nel saltare e nel galoppare veloci, sentendo l’aria sul viso e il rumore degli zoccoli che toccano terra a ritmo cadenzato, l’adeguarsi del tuo corpo ai movimenti del cavallo e la sensazione vera di essersi staccati da terra insieme a lui…

Anche dal lato fisico imparare ad andare a cavallo è un’esperienza più che stimolante: si impara l’equilibrio e la coordinazione, si utilizzano i muscoli della schiena, tenuta dritta, e muscoli generalmente poco utilizzati di glutei e gambe.

Le espressioni di un rapporto cavaliere-cavallo possono davvero soddisfare e realizzare attitudini molto diverse: dalla velocità alla potenza del salto a ostacoli, dall’eleganza del dressage alla tranquillità di un trekking nella natura.

Andare a cavallo è un’esperienza di apprendimento continua, dove ogni volta si nota e si apprezza un particolare passato inosservato la volta prima.

E’ un’esperienza che mi regala felicità ed emozioni e con la quale vorrei poter andare lontano, seguendo i miei sogni.

NON SONO UNA PSICOLOGA

Io non sono una psicologa. Sono solo una mamma.

Eppure ho scritto di argomenti che hanno a che fare con la psicologia, soprattutto in merito a relazioni conflittuali con i bambini.

Mi sono chiesta molte volte se avesse un senso raccogliere e in qualche modo rendere accessibile ad altri ciò che ho imparato durante gli ultimi 8 anni, che per me e i miei figli sono risultati un po’ difficili.

Ha senso proporre un’esperienza comune, argomenti su cui si è già detto tutto e su cui molte persone sono più competenti di me?

Ho deciso di farlo innanzitutto per me stessa. Per raccogliere i miei pensieri in maniera ordinata e fare in modo di riuscire a ritrovarli nel momento del bisogno. Per non lasciare che tante riflessioni e insegnamenti andassero perduti o dimenticati.

La vita è spesso difficile, le strade che percorriamo sono molteplici e mi sono accorta che spesso nelle relazioni utilizziamo una grande quantità di energie  e di risorse per essere di aiuto a qualcuno, utilizzando inconsapevolmente modalità che si rivelano alla fine controproducenti, verso se stessi e verso le persona che si intende aiutare.

E’ come se percorressimo una strada sbagliata per arrivare ad una buona meta, un modo sbagliato per raggiungere un ottimo fine.

Trovare la strada giusta è ovviamente difficile, anche perché non esiste un’unica strada. Ognuno di noi può trovarne una che sia più adatta alle sue esigenze e a quelle delle persone con cui si relaziona.

Quello che ho fatto io è stato interrogarmi su me stessa, cercare di capire ed esplicitare i meccanismi e i ragionamenti che mi portavano a reazioni che facevano soffrire me e i miei cari.

Una volta riconosciuti quelli negativi, si può cercare di modificarli un poco, quando e se ci si riesce, con molta pazienza e costanza. Bisogna essere consapevoli che anche riconosciuti i comportamenti da migliorare non è immediato riuscire nell’intento. Spesso sono reazioni che mettiamo in atto in maniera automatica, così come per automatismo abbiamo imparato a camminare a parlare.

Il riconoscere queste reazioni automatiche aumenta il livello di consapevolezza di sé, del nostro mondo interiore e del funzionamento della nostra mente nelle situazioni anche solo di piccola difficoltà. Arricchiti di questa consapevolezza si può cercare di modificare e migliorare, a volte riuscendovi ed altre volte no, la strada sbagliata che automaticamente è stata intrapresa. Anche solo il fatto di aver individuato gli “errori” ci rende più tolleranti verso noi stessi quando non riusciamo a correggerci e indulgenti verso la nostra fragilità quotidiana.

Il vedere che anche solo piccoli cambiamenti mi portavano ad enormi miglioramenti nelle relazioni con i miei figli mi ha dato la forza necessaria a continuare su questa strada, a continuare a scavare più in fondo me stessa e continuare a provare a modificare il mio abituale modo di affrontare le cose, che aveva fatto soffrire me e i miei cari.

In questo spazio vorrei raccogliere e presentare gli aiuti che mi sono stati fondamentali per iniziare ed affrontare questo percorso di crescita personale, pensando che un’ennesima sfaccettatura degli argomenti di riflessione proposti possa essere anche di interesse per qualcuno che non abbia ancora trovato le parole che interpretino correttamente i suoi pensieri.

Esprimere le emozioni

Le emozioni. Tutti noi pensiamo di saperle riconoscere, esprimere, chiamare per nome.

In realtà sapere definire bene l’emozione che ci sta accompagnando in una determinata occasione richiede una buona dose di introspezione e di onestà verso se stessi.

Non conoscere e non esprimere le proprie emozioni è un’abitudine che può rivelarsi pericolosa per nostro benessere psicofisico.

Una persona che non esprime le proprie emozioni o non le riconosce o non sa spiegarsi da dove esse vengano, come siano generate, non conosce se stessa e prima o poi riconoscerà di sentirsi “contenuta”, di non riuscire ad essere pienamente se stessa.

Andarsene in giro per il mondo con i “freni emotivi” perennemente tirati limita la capacità di gioire, di imparare, di crescere e diventare una persona adulta e matura.

Ascoltare il flusso delle emozioni che ci pervade ogni momento è il sentirsi vivi. E’ il sentire che siamo persone con una coscienza e una consapevolezza di sé, è riuscire a guardare la realtà e le altre persone per quello che sono, come fonte di ispirazione dei nostri sentimenti.

Per questo è importante fin da bambini intraprendere un percorso di alfabetizzazione delle emozioni.

La competenza emotiva di un bambino, ossia la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni e di riconoscere e rispondere in maniera appropriata alle emozioni altrui, varia a seconda dell’età del bambino e del contesto sociale in cui vive: ad esempio, è stato dimostrato che parlare in famiglia delle emozioni sia proprie che altrui (Dunn, Brown, 1994) permette ai bambini di affrontare meglio le proprie emozioni, di comprendere le emozioni altrui, di condividere le esperienze emotive con gli altri e di relazionarsi in maniera più appropriata con gli altri. Inoltre, durante l’età prescolare, come ci riporta Piaget, nel bambino si sviluppa la cosiddetta “teoria della mente” che consente allo stesso di attribuire all’altro intenzioni, desideri, pensieri ed emozioni che possono essere differenti dai propri; il bambino riesce, dunque, ad assumere una prospettiva diversa dalla propria.

Spiegare ai bambini cosa sono le emozioni, denominarle e insegnare loro delle strategie di gestione delle stesse non sempre risulta un compito semplice per i genitori, in quanto anche se si è raggiunta una buona consapevolezza di sé, è necessario l’utilizzo di un linguaggio e di un metodo che possa essere compreso adeguatamente dai bambini. E’ necessario capire il proprio bambino ed entrare in sintonia con lui.

Le emozioni emergono precocemente nella vita di ciascun individuo e secondo Ekman e Friesen già nelle prime settimane di vita è possibile riscontrare la presenza di 6 emozioni primarie innate e universali: la gioia, la tristezza, la rabbia, la paura, il disgusto, la sorpresa ( Avete visto “inside out?”). Nel corso dello sviluppo, le emozioni cambiano a causa sia della maturazione biologica sia dei processi di socializzazione primaria e secondaria ed emergono delle nuove emozioni: ad esempio, la colpa, la vergogna e l’orgoglio compaiono verso il secondo e terzo anno di vita. Col tempo, le emozioni cominceranno ad essere attivate in situazioni differenti e saranno regolate con comportamenti sempre più accettati socialmente.

E’ naturale, poi, tendere a classificare le emozioni come positive e negative, e in un certo senso rendere implicito in molti nostri comportamenti o proposizioni che le emozioni negative non sia bene manifestarle.

In genere le emozioni negative sono sentimenti dolorosi, di tristezza o rabbia o frustrazione.

Bisogna però rendersi conto che reprimere i sentimenti che fanno male non significa automaticamente farli sparire. Ogni sentimento deve in qualche modo trovare uno sbocco o tenendoli nascosti diventeranno di solito più grandi e più forti e ricompariranno sotto forma di altri sintomi.

Oltretutto, quando le emozioni non vengono condivise, ci si può sentire molto soli e spaventati, i sentimenti dolorosi non condivisi tendono a crescere. Invece, quando si racconta a qualcuno le proprie emozioni, queste sembrano poi meno spaventose e gigantesche, e si trova la forza e la via giusta per affrontarle.

In poche parole, le emozioni represse non sono sopite. Come dice Freud, esse “proliferano nel buio”.

Quello che possiamo fare, quindi è insegnare ai bambini a riconoscere le proprie emozioni, di qualunque tipo, dando loro un nome e senza classificarle come negative o positive. E poi a rielaborarle, affiancandoli con pazienza quando serve, dedicando loro tempo di qualità e cercando davvero di ascoltarli e capirli.

Se questo tipo di aiuto è costante le emozioni cominceranno ad essere considerate come utili indicazioni per decidere come agire, per comprendere di cosa abbia bisogno e quali siano i suoi desideri, e non più come una minaccia.